Gli effetti dell’ospedalizzazione sui bambini

Il significato della malattia per i bambini

Per i più piccoli, la malattia rappresenta un’interruzione dolorosa della loro quotidianità, fatta di giochi, relazioni sociali e attività. Per loro, un periodo di malattia significa sospendere la ricerca di tranquillità, divertimento e crescita.

L’età del bambino influisce sulla percezione della malattia. Vari modelli cercano di spiegare il modo in cui i bambini comprendono la propria condizione (Capurso, 2019; Eiser, 1985). Uno di questi è il modello stadiale, ispirato alla teoria degli stadi evolutivi di Piaget (1953), secondo cui la comprensione della malattia avviene attraverso tappe di sviluppo che ogni bambino percorre in modo sequenziale.

Il modello dinamico, invece, pur riconoscendo l’importanza della teoria piagetiana nella psicologia dello sviluppo, ha aperto la strada a revisioni e critiche costanti (Carugati & Selleri, 2005).

Gli adulti, quando sentono parlare di una malattia, tendono a concentrarsi sulla sua gravità e sulle possibili cure. Per i bambini il focus è diverso: vivendo più nel presente, si preoccupano soprattutto di come la malattia influenzerà la loro possibilità di giocare, stare con gli amici e frequentare la scuola (Capurso, Lo Bianco, Cortis & Rossetti, 2016). Tuttavia, la difficoltà nel trovare spiegazioni razionali alla propria condizione può portare soprattutto i più piccoli a provare ansia o senso di colpa (Dempsey, 2019; Eiser, 1985b).

L'impatto dell'ospedalizzazione sui bambini

Essere ricoverati rappresenta un momento cruciale e potenzialmente traumatico nella vita di un bambino. Questa esperienza, a causa delle sue conseguenze sia immediate che a lungo termine, è considerata una fonte di forte stress e ansia. Se non affrontata adeguatamente, può generare regressioni, blocchi o alterazioni nello sviluppo del bambino.

Le procedure mediche, come prelievi di sangue, iniezioni e interventi invasivi, spesso causano timori legati al dolore, alla possibilità di subire danni fisici e, nei casi più gravi, alla paura della morte. Inoltre, l’ospedalizzazione implica la perdita del controllo sulle proprie abitudini quotidiane, poiché i bambini devono chiedere il permesso per attività semplici come dormire, mangiare o uscire dalla stanza.

L’ingresso in ospedale e la degenza rappresentano un’esperienza nuova che richiede un adattamento sia fisico che psicologico. I bambini devono affidarsi a persone sconosciute, separarsi dalla famiglia e abituarsi a un ambiente diverso. Questi fattori influenzano il loro sviluppo emotivo, cognitivo e relazionale, oltre a modificare la percezione di sé e del proprio corpo.

Si identificano diverse dimensioni di rischio:

  •  Affettiva: riguarda la regolazione emotiva e la percezione della malattia. È fondamentale supportare l’intelligenza emotiva dei bambini e creare spazi sicuri in cui possano esprimersi.
  • Relazionale: la separazione dalla famiglia, dagli amici e dalla scuola altera i rapporti sociali e l’identità del bambino.
  • Corporea: l’ospedalizzazione e gli interventi chirurgici possono influenzare l’immagine di sé, generando sentimenti di insicurezza e inadeguatezza.
  • Cognitiva: il ricovero influisce sull’apprendimento e sulle strategie di adattamento, con conseguenze sul tono dell’umore e sulla motivazione.

La perdita di controllo sull’ambiente ospedaliero e sulle procedure mediche è una delle principali fonti di ansia. Gabriel et al. (2018) hanno evidenziato che l’ospedalizzazione può portare i bambini a provare paura, stress, depressione e disagio, con ripercussioni anche sui genitori.

Studi recenti hanno mostrato che l’ansia genitoriale prima di un intervento chirurgico può influenzare negativamente la percezione del dolore del bambino. Noel et al. (2015) hanno rilevato che i figli di genitori ansiosi tendono a sviluppare ricordi distorti del dolore, aumentando il rischio di esperienze post-operatorie negative. Fischer et al. (2019) hanno sottolineato come i livelli elevati di ansia genitoriale possano intensificare la paura del dolore nei bambini, influenzando il loro modo di ricordare l’esperienza chirurgica.

Negli anni ’50, Renata Gaddini fu tra le prime a evidenziare l’importanza di preservare il legame tra il bambino e il suo ambiente familiare durante l’ospedalizzazione. In Italia, questo ha portato alla creazione di servizi dedicati ai bambini ricoverati, tra cui assistenza scolastica, la possibilità di far soggiornare i genitori e spazi per il gioco.

L’ansia è tra le risposte negative più comuni e, se intensa, può compromettere la salute fisica e psicologica dei bambini. Può ostacolare la loro collaborazione durante le cure mediche, generare sfiducia nei confronti del personale sanitario e ridurre la loro capacità di affrontare l’esperienza ospedaliera.

L’attività fisica dei bambini ospedalizzati è notevolmente limitata, riducendo le loro possibilità di esplorazione e apprendimento (Rokach, 2016). Il gioco, tuttavia, si dimostra un efficace strumento per la gestione dello stress e l’adattamento alla malattia. Li et al. (2016) hanno evidenziato che la “play-intervention” consente ai bambini di simulare procedure mediche in un ambiente sicuro, aiutandoli a elaborare meglio la loro esperienza.

Infine, il ruolo dei volontari è cruciale: attraverso le attività ludiche, essi favoriscono un senso di normalità e aiutano i bambini a dare significato alla loro esperienza. Inoltre, offrono supporto ai genitori, permettendo loro di dedicare un po’ di tempo a se stessi in un periodo difficile.

A cura di: Tania Buccolieri, tirocinante presso ABC

Revisione a cura di: dott.ssa Angela Camelio, responsabile del progetto di sostegno emotivo nel reparto e di sensibilizzazione nelle scuole.

Bibliografia

– Capurso, M.(2019). Communicating diagnoses and therapies to children. Quaderni acp,26 (4)

– Carugati, F., & Selleri,P. (2005). Psicologia dell’educazione. Bologna: Il Mulino. – Eiser,C. (1985). The psychology of childhood illness: Springer-VerlagPiaget,J. (1953). The origin of intelligence in the child. London; Routledge & Paul – Wood, D., Bruner, J.S., & Ross, G. (1976). The role of tutoring in problem solving. Journal of Child psychology and Psychiatry, 17 (2), 89-100